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Rassegna Stampa - L'Argomento di Oggi - dal 2010-08-19 ad oggi 2010-08-30 Sintesi (Più sotto trovate gli articoli)

Bilancio: Americani Morti 4414 - Feriti 31897 - Amputati 1135 -civili iracheni morti 113166 .

Costo Guerra 3000 Mld $ - Costo Operaz. Militari 3000 Mld $

La data di fine missione resta il 31 agosto: rimarranno solo 50 mila "addestratori"

Iraq, già iniziato il ritiro dei soldati Usa

Le operazioni compiute in segretezza. Il governo di Bagdad preoccupato

BAGDAD — Stanno uscendo in anticipo. La data ufficiale per il ritiro delle unità americane combattenti dall'Iraq resta il 31 agosto. Ma proprio in queste ore gli ultimi soldati stanno abbandonando il suolo iracheno. Entro la serata di oggi l'operazione dovrebbe essere praticamente completata: resteranno sul campo i 50.000 uomini che dal primo di settembre saranno limitati per lo più a compiti di addestramento delle nuove forze di sicurezza irachene. I comandi Usa hanno fatto del loro meglio per evitare di esporre i soldati a imboscate e attentati. Non occorre essere esperti di cose militari per capire che in una fase come questa qualsiasi esercito diventa estremamente vulnerabile. E la propaganda del nemico ha gioco facile nel trasformare ogni eventuale incidente, anche lo scontro a fuoco più insignificante, in una grande vittoria.

ST

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Dalessandro Giacomo

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Internet, l'informatore, ll Giornalista, la stampa, la TV, la Radio, devono innanzi tutto informare correttamente sul Pensiero dell'Intervistato, Avvenimento, Fatto,

pena la decadenza dal Diritto e Libertà di Testimoniare. Poi si deve esprimere separatamente e distintamente il proprio personale giudizio.

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Il mio commento sull'argomento di Oggi è :

……..

Rassegna Stampa - L'Argomento di Oggi - dal 2010-08-19 ad oggi 2010-08-30

AVVENIRE

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2010-08-20

USA VIA dall'AFGHANISTAN nel 2014

USA E' INIZIATO IL RITIRO dall'IRAK

31 agosto 2010

TRANSIZIONE

Iraq, al Maliki saluta gli americani

"Da oggi sovrani e indipendenti"

Il primo ministro iracheno Nouri al Maliki, nel salutare i soldati combattenti americani che hanno terminato la loro missione, ha detto che da oggi "l'Iraq è sovrano e indipendente".

Per Maliki - che parlava in tv per segnare la transizione tra militari combattenti statunitensi e assistenti o consiglieri - l'Iraq ha guadagnato l'indipendenza e le sue forze di sicurezza ora possono affrontare tutte le minacce, sia quelle interne che quelle provenienti dall'esterno.

"Le nostre forze di sicurezza - ha spiegato il premier iracheno - prenderanno la guida per garantire la sicurezza e la salvaguardia del Paese, respingendo ogni minaccia", sia interna

che internazionale.

 

 

 

2010-08-20

20 agosto 2010

LA DIFFICILE TRANSIZIONE

Iraq, le truppe Usa

sulla strada di casa

Il soldato Clinton J. Clemens aveva 18 anni quando percorse la stessa strada, nel settembre del 2003. "Ero spaventato da morire – racconta –. Attraversammo la frontiera e 15 minuti dopo ci piovevano addosso i primi colpi". A sette anni di distanza – con le vittime tra i soldati Usa schizzate a quota 4.400, con i miliardi di dollari per rimettere in piedi l’esercito iracheno saliti a venti e un Paese ancora alle prese con un’interminabile crisi politica – Clinton J. Clemens corre lungo la stessa strada. Ma nella direzione opposta. Via dall’Iraq.

Con 13 giorni di anticipo sulla scadenza prevista (il 31 agosto) gli Stati Uniti hanno ritirato, nella notte tra mercoledì e giovedì, l’ultima brigata da combattimento. Nel Paese sono rimasti, per ora, 56mila soldati. Le truppe rimaste continueranno le operazioni fino al primo settembre quando resteranno in 50mila con compiti esclusivi di "appoggio e addestramento" dei militari iracheni. Entro il 31 dicembre 2011 – secondo il calendario approvato da Bush e fatto proprio da Barack Obama – tutti i militari, tranne qualche decina, avranno abbandonato il Paese. "Non è la fine della guerra", ha subito frenato Geoff Morell, portavoce del Pentagono, che ha messo in guardia dal considerare la fine della "missione di combattimento". Corretta anche giornalista della Nbc "embended" (aggregata alla IV brigata Stryker) aveva dato per completato il ritiro delle truppe Usa.

Ma il progressivo disimpegno dell’esercito americano non lascerò un vuoto. Per sostituire i militari gli Stati Uniti lasceranno un "piccolo esercito" di contractor civili che prenderanno il loro posto – a partire dall’ottobre del 2011 – tanto nell’addestramento della polizia irachena, quanto nella protezione dei suoi campi fortificati e delle ambasciate. Lo ha rivelato il New York Times: il Dipartimento di Stato assumerà il controllo del personale civile entro l’ottobre del 2011 e il numero dei contractor sarà più che raddoppiato, passando a circa 7mila uomini.

Questi ultimi, secondo il quotidiano, avranno il compito di "proteggere i civili in un Paese che ospita ancora degli insorti. Posti alla difesa di cinque complessi fortificati in tutto il Paese, i contractor della sicurezza impiegheranno radar per avvistare attacchi con razzi, scoveranno gli ordigni artigianali lungo le strade, faranno volare droni di ricognizione e potranno anche mettere insieme piccole unità di pronta reazione per aiutare i civili in difficoltà". Senza militari sul posto, per evitare tensioni, "sarà compito dei diplomatici Usa in due avamposti dal costo di 100 milioni di dollari scongiurare potenziali scontri fra l’esercito iracheno e i combattenti peshmerga curdi". Il giornale, citando fonti anonime della Casa Bianca, spiega che saranno almeno 2.400 le persone che lavoreranno all’ambasciata e presso altre sedi diplomatiche. Scettico monsignor Shlemon Warduni, vescovo ausiliare di Baghdad sulle reali possibilità del Paese di rinascere: "È molto difficile vivere in un luogo dove non c’è la legge, dove non c’è il governo. L’Iraq è senza un governo, è senza legge. E come si può vivere in un posto così? Bisogna avere prima di tutto un governo stabile, perché adesso i terroristi vanno e vengono come vogliono".

Nel caldo rovente dei loro blindati – la cabina di guida si chiama "inferno" perché si trova sopra il motore – i soldati americani non trattengono il loro entusiasmo. "È la parola fine su sette anni di guerra", dice il colonnello Mark Bieger.

Luca Miele

 

 

20 agosto 2010

MEDIO ORIENTE

Clinton: riprendono i colloqui

tra Netanyahu e Mazen

Hillary Clinton ha annunciato ufficialmente la ripresa dei negoziati diretti tra israeliani e palestinesi, con un summit che si svolgerà il 2 settembre alla Casa Bianca. Con una dichiarazione il segretario di Stato ha così confermato quanto era stato anticipato dalla stampa americana, cioè che Barack Obama è riuscito a convincere il premier palestinese Benyamin Netanyahu e il presidente dell'Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas ad incontrarsi a Washington per un summit che inizierà con una cena alla Casa Bianca il primo settembre.

La Clinton ha detto anche che il presidente Obama ha invitato il presidente egiziano Hosni Mubarak, il re Abdullah di Giordania e Tony Blair in qualità di inviato speciale del Quartetto per il Medio Oriente. La Clinton ha sottolineato come l'obiettivo è quello "di rilanciare i negoziati diretti per risolvere tutte le questione dello status finale che noi crediamo possano essere completate entro un anno".

La Clinton ha illustrato il formato del vertice, che prevede per il primo settembre incontri bilaterali del presidente Obama con i quattro leader e poi appunto la cena insieme a cui parteciperà anche Blair, e poi l'incontro dei due. "È importante che le azioni di tuttele parti contribuiscano a far avanzare il nostro tentativo e non lo ostacolino" ha detto ancora la Clinton, che comunque ha riconosciuto come la strada si presenti difficile e piena di incognite.

"Ci sono state difficoltà in passato, vi saranno difficoltà di fronte a noi, non ci sono dubbi, ci troveremo a scontrarci con ostacoli - ha aggiunto - ma io chiedo alle parti di mostrare perseveranza, di continuare a procedere anche nei momenti difficili e continuare a lavorare per ottenere una pace giusta e duratura nella regione".

LE REAZIONI

Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha accolto con favore l'invito degli Usa per la ripresa dei negoziati diretti con i palestinesi. Lo ha riferito un suo portavoce. Netanyahu aveva detto più volte di essere pronto a sedersi a un tavolo con il presidente dell'Anp, Abu Mazen, per far ripartire il processo di pace. Più cauta la reazione palestinese. Il negoziatore dell'Anp, Saeb Erekat, ha salutato con favore la dichiarazione del Quartetto che a suo giudizio "contiene gli elementi necessari per arrivare a un accordo di pace", ma non si è voluto pronunciare sull'invito a Washington.

L'annuncio del Segretario di Stato Clinton della ripresa all'inizio di settembre dei negoziati diretti israelo-palestinesi è uno "sviluppo estremamente positivo cui il governo italiano fornirà tutto il sostegno possibile". Così si è espresso il ministro degli Esteri Franco Frattini che ha sottolineato la propria soddisfazione e il proprio plauso per il tenace 'impegno con cui l'amministrazione americana e il senatore Mitchell hanno agito e continuano ad agire per portare le due parti al tavolo negoziale.

"L' auspicio - ha proseguito Frattini - è che palestinesi e israeliani siano pronti ad assumersi importanti responsabilità per affrontare e risolvere i nodi cruciali del negoziato e porre le premesse per una pace duratura sulla base del principio Due Stati Due Popoli".

L'Italia grazie ai rapporti stretti e fondati sulla fiducia e il rispetto reciproco che intrattiene con Israele e con l'Anp, continuerà, come ha fatto finora, a svolgere il proprio ruolo attivo sul piano bilaterale e all'interno dell'Unione europea per sostenere gli sforzi del Quartetto in favore del negoziato.

 

 

2010-08-19

19 agosto 2010

BAGHDAD

Iraq, truppe combattenti Usa

si ritirano dal Paese

Con 13 giorni di anticipo sulla scadenza prevista (il 31 agosto) gli Stati Uniti hanno ritirato nella notte l'ultima brigata da combattimento dall'Iraq. Nel Paese sono rimasti, per ora, 56mila soldati. Dopo sette anni e mezzo la Guerra iniziata da George W. Bush per distruggere le inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein è - solo virtualmente - finita.

Le truppe rimaste continueranno le operazioni fino al primo settembre quando resteranno in 50mila con compiti esclusivi - sulla carta - di "appoggio e addestramento" dei militari afghani. Entro il 31 dicembre 2011 - secondo il calendario approvato da Bush e fatto proprio da Barack Obama - tutti i militari americani, tranne qualche decina, avranno abbandonato il Paese.

Ma il ritorno a casa dei soldati americani non chiude la fase di appoggio di Washington al governo - ancora inesistente a cinque mesi dalle elezioni del 7 marzo scorso - iracheno. Come rivela il New York Times per compensare il ritiro delle truppe combattenti sono in arrivo 7mila contractor privati, cui sarà affidata - di fatto - la sicurezza del Paese, sempre a spese dei contribuenti americani. Contractor, che dal massacro del 16 settembre 2007 a Baghdad in cui gli uomini della Blackwater uccisero 17 civili, non sono affato amati in Iraq.

Il dipartimento di Stato spenderà 100 milioni di dollari solo per realizzare due avamposti fortificati nel nord del Paese - ricco di risorse petrolifere - per scongiurare grazie ai contractor scontri tra l'esercito regolare e le forze curde dei guerriglieri peshmerga. Dall'ottobre del 2011 - tre mesi prima che l'ultimo soldato Usa avrà lasciato il Paese - sempre il dipartimento di Stato assumerà la responsabilita di addestrare la polizia irachena.

Altri cinque basi avanzate fortificate saranno sparse nel resto del Paese. A gestirle ci penseranno sempre gli uomini delle agenzie di sicurezza private che svolgeranno gli stessi compiti affidati finora all'esercito: gestiranno i radar, cercheranno ordigni improvvisati (Ied) piazzati sul ciglio della strada, faranno volare i droni (aerei senza piloti) e forniranno il personale necessario alle forze di reazione rapida per aiutare i civili.

 

 

 

 

 

 

CORRIERE della SERA

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2010-08-19

USA VIA dall'AFGHANISTAN nel 2014

USA E' INIZIATO IL RITIRO dall'IRAK

"L'obiettivo è trovare una soluzione entro un anno". hamas: no a colloqui

Israele-Anp: dialogo dal 2 settembre

L'annuncio ufficiale di Hillary Clinton. Dopo 20 mesi di stop ripartono i negoziati di pace "senza precondizioni"

"L'obiettivo è trovare una soluzione entro un anno". hamas: no a colloqui

Israele-Anp: dialogo dal 2 settembre

L'annuncio ufficiale di Hillary Clinton. Dopo 20 mesi di stop ripartono i negoziati di pace "senza precondizioni"

Hillary Clinton (Afp)

Hillary Clinton (Afp)

WASHINGTON - L'annuncio ufficiale è arrivato dalla fonte più autorevole: il segretario di Stato americano Hillary Clinton. "Dal 2 settembre riprenderano alla Casa Bianca i colloqui Israele-Autorità nazionale palestinese (Anp)". L'obiettivo dell'amministrazione Usa è di "risolvere in un anno la questione dello status finale" tra Israele e palestinesi. I negoziati di pace possono così riprendere dopo la sospensione del dicembre 2008. Il New York Times aveva anticipato che il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente palestinese Abu Mazen erano attesi a Washington per i primi di settembre, su invito del presidente americano Barack Obama.

SENZA PRECONDIZIONI - Gli Stati Uniti hanno invitato alla Casa Bianca per l'1 e il 2 settembre il presidente egiziano Hosni Mubarak e re Abdallah di Giordania, oltre al negoziatore del Quartetto (Usa, Ue, Russia e Onu) Tony Blair, ha proseguito Clinton. Il il segretario di Stato ha detto che i negoziati diretti dovranno svolgersi "senza precondizioni". Il 3 settembre si terrà un nuovo incontro a tre al dipartimento di Stato con Netanyahu e Abu Mazen.

OK DA TEL AVIV - Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha accolto l'invito americano al tavolo negoziale: "Raggiungere un accordo di pace è difficile, ma non impossibile", ha detto. L'Anp, che aveva chiesto alcune assicurazioni preventive, darà una risposta formale a conclusione di una riunione del Comitato esecutivo dell'Olp (che controlla la Cisgiordania) convocata da Abu Mazen a Ramallah.

NO DI HAMAS - Ma Hamas, il gruppo integralista islamico che governa nella Striscia di Gaza, ha già fatto sapere di respingere i colloqui diretti palestinesi-Israele. Il no di Hamas era scontato e comunque non era tra gli invitati ai colloqui di Washington.

QUARTETTO - Anche il Quartetto sul Medio Oriente invita a rilanciare i negoziati diretti tra israeliani e palestinesi ed è convinto che entro un anno i negoziati potranno essere conclusi. Lo afferma lo stesso Quartetto in una dichiarazione diffusa all'Onu a New York. Il negoziatore dell'Anp, Saeb Erekat, ha salutato con favore la dichiarazione del Quartetto che a suo giudizio "contiene gli elementi necessari per arrivare a un accordo di pace", ma non si è voluto pronunciare sull'invito a Washington.

FRATTINI" - I colloqui diretti Israele-Anp hanno "tutto il sostegno del governo italiano". Lo ha detto il ministro degli Esteri, Franco Frattini, dopo l'annuncio di Hillary Clinton della ripresa dei negoziati diretti. Frattini ha sottolineato la soddisfazione e il plauso per il tenace "impegno con cui l'amministrazione americana ha agito per portare le due parti al tavolo negoziale. L'auspicio è che palestinesi e israeliani siano pronti ad assumersi importanti responsabilità per affrontare e risolvere i nodi cruciali del negoziato e porre le premesse per una pace duratura sulla base del principio "due Stati, due popoli"". L'Italia "grazie ai rapporti stretti e fondati sulla fiducia e il rispetto reciproco che intrattiene con Israele e con l'Autorità nazionale palestinese, continuerà, come ha fatto finora, a svolgere il proprio ruolo attivo sul piano bilaterale e all'interno dell'Unione europea per sostenere gli sforzi del Quartetto in favore del negoziato".

Redazione online

20 agosto 2010

 

 

 

La data di fine missione resta il 31 agosto: rimarranno solo 50 mila "addestratori"

Iraq, già iniziato il ritiro dei soldati Usa

Le operazioni compiute in segretezza. Il governo di Bagdad preoccupato

La data di fine missione resta il 31 agosto: rimarranno solo 50 mila "addestratori"

Iraq, già iniziato il ritiro dei soldati Usa

Le operazioni compiute in segretezza. Il governo di Bagdad preoccupato

DAL NOSTRO INVIATO

BAGDAD — Stanno uscendo in anticipo. La data ufficiale per il ritiro delle unità americane combattenti dall'Iraq resta il 31 agosto. Ma proprio in queste ore gli ultimi soldati stanno abbandonando il suolo iracheno. Entro la serata di oggi l'operazione dovrebbe essere praticamente completata: resteranno sul campo i 50.000 uomini che dal primo di settembre saranno limitati per lo più a compiti di addestramento delle nuove forze di sicurezza irachene. I comandi Usa hanno fatto del loro meglio per evitare di esporre i soldati a imboscate e attentati. Non occorre essere esperti di cose militari per capire che in una fase come questa qualsiasi esercito diventa estremamente vulnerabile. E la propaganda del nemico ha gioco facile nel trasformare ogni eventuale incidente, anche lo scontro a fuoco più insignificante, in una grande vittoria.

Audio - Fine missione in piena crisi politica di Lorenzo Cremonesi

dei campi militari sul suolo iracheno, quasi nessuna notizia dei giganteschi convogli di mezzi pesanti verso il porto di Bassora e le basi in Kuwait o Arabia Saudita. Tanta segretezza ricorda da vicino il ritiro israeliano dal Libano meridionale 10 anni fa. L'allora premier Ehud Barak aveva annunciato il completamento dell'operazione entro il giugno 2000. Ma, proprio per non mettere a rischio i soldati dai clamorosi blitz già annunciati allora da Hezbollah, l'evacuazione fu avviata con largo anticipo, sino alla notte del 24 maggio, quando anche gli ultimi soldati lasciarono nel massimo segreto il suolo libanese. In questo caso però la cosa è molto più complessa. Le radici dell'operazione risalgono all'accordo tra l'ex presidente americano George Bush e il premier iracheno Nouri al Maliki nell'estate 2008. Si era al culmine del surge, la grande offensiva contro Al Qaeda, le milizie sunnite e quelle estremiste sciite, lanciata nel febbraio 2007 sotto la guida del generale David Petraeus. Le truppe americane presenti sullo scenario iracheno avevano superato le 170.000 unità, il numero più alto dall'invasione del 2003.

Soldati americani ripiegano la bandiera lasciando la base militare Scania, nel sud di Bagdad (Ansa)

Soldati americani ripiegano la bandiera lasciando la base militare Scania, nel sud di Bagdad (Ansa)

Così ben poco è trapelato dello smantellamentoE i risultati c'erano stati, importanti, positivi. Per la prima volta dall'ondata di attentati e massacri iniziata già nell'autunno 2003, il Paese dava segni di graduale stabilizzazione. Se nei picchi di sangue del 2006-7 i morti iracheni superavano i 3.000 mensili, ora si stava scendendo a meno di 400. E per le strade cominciavano ad apparire le nuove forze di sicurezza irachene, anche l'economia dava timidi segni di ripresa. I problemi per Bush crescevano invece in casa: gli americani dimostravano di non accettare più il tributo di sangue dei loro soldati. Oltre 3.000 morti dall'invasione, che oggi sfiorano quota 4.500, oltre a 30.000 feriti. Occorreva stabilire al più presto il calendario di una "exit strategy". L'anno scorso il presidente Barack Obama è stato ben felice di ratificare le intese firmate dal suo predecessore. Il suo obbiettivo ora è concentrarsi sull'Afghanistan, sperando che ancora Petraeus (il suo nuovo comandante sul campo dopo le controverse dimissioni del generale Stanley McChrystal) sia in grado anche qui di creare le condizioni per il ritiro. Eppure il nodo iracheno non è stato ancora sciolto. La crisi politica (dalle elezioni del 7 marzo non è ancora stato creato il nuovo governo), la recente ripresa degli attentati e le preoccupazioni tra i militari e la società civile locali, che paventano il ritorno massiccio della violenza a fronte del vuoto lasciato dagli americani, lanciano pesanti ipoteche sul futuro. Il primo di settembre termina formalmente la missione "Iraqi Freedom", iniziata con la guerra del marzo 2003, e comincia la "New Dawn", la nuova alba, che nelle speranze dei suoi fautori dovrebbe traghettare il Paese verso la normalizzazione. "Non ce ne andiamo. Almeno sino alla fine del 2011 resteranno 50.000 soldati Usa per addestrare gli iracheni", cercano di tranquillizzare da Washington e i portavoce americani a Bagdad. Ma per il momento sono in tanti qui a trattenere il respiro.

Lorenzo Cremonesi

19 agosto 2010

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La data di fine missione resta il 31 agosto: rimarranno solo 50 mila "addestratori"

Iraq, già iniziato il ritiro dei soldati Usa

Le operazioni compiute in segretezza. Il governo di Bagdad preoccupato

La data di fine missione resta il 31 agosto: rimarranno solo 50 mila "addestratori"

Iraq, già iniziato il ritiro dei soldati Usa

Le operazioni compiute in segretezza. Il governo di Bagdad preoccupato

DAL NOSTRO INVIATO

BAGDAD — Stanno uscendo in anticipo. La data ufficiale per il ritiro delle unità americane combattenti dall'Iraq resta il 31 agosto. Ma proprio in queste ore gli ultimi soldati stanno abbandonando il suolo iracheno. Entro la serata di oggi l'operazione dovrebbe essere praticamente completata: resteranno sul campo i 50.000 uomini che dal primo di settembre saranno limitati per lo più a compiti di addestramento delle nuove forze di sicurezza irachene. I comandi Usa hanno fatto del loro meglio per evitare di esporre i soldati a imboscate e attentati. Non occorre essere esperti di cose militari per capire che in una fase come questa qualsiasi esercito diventa estremamente vulnerabile. E la propaganda del nemico ha gioco facile nel trasformare ogni eventuale incidente, anche lo scontro a fuoco più insignificante, in una grande vittoria.

Audio - Fine missione in piena crisi politica di Lorenzo Cremonesi

dei campi militari sul suolo iracheno, quasi nessuna notizia dei giganteschi convogli di mezzi pesanti verso il porto di Bassora e le basi in Kuwait o Arabia Saudita. Tanta segretezza ricorda da vicino il ritiro israeliano dal Libano meridionale 10 anni fa. L'allora premier Ehud Barak aveva annunciato il completamento dell'operazione entro il giugno 2000. Ma, proprio per non mettere a rischio i soldati dai clamorosi blitz già annunciati allora da Hezbollah, l'evacuazione fu avviata con largo anticipo, sino alla notte del 24 maggio, quando anche gli ultimi soldati lasciarono nel massimo segreto il suolo libanese. In questo caso però la cosa è molto più complessa. Le radici dell'operazione risalgono all'accordo tra l'ex presidente americano George Bush e il premier iracheno Nouri al Maliki nell'estate 2008. Si era al culmine del surge, la grande offensiva contro Al Qaeda, le milizie sunnite e quelle estremiste sciite, lanciata nel febbraio 2007 sotto la guida del generale David Petraeus. Le truppe americane presenti sullo scenario iracheno avevano superato le 170.000 unità, il numero più alto dall'invasione del 2003.

Soldati americani ripiegano la bandiera lasciando la base militare Scania, nel sud di Bagdad (Ansa)

Soldati americani ripiegano la bandiera lasciando la base militare Scania, nel sud di Bagdad (Ansa)

Così ben poco è trapelato dello smantellamentoE i risultati c'erano stati, importanti, positivi. Per la prima volta dall'ondata di attentati e massacri iniziata già nell'autunno 2003, il Paese dava segni di graduale stabilizzazione. Se nei picchi di sangue del 2006-7 i morti iracheni superavano i 3.000 mensili, ora si stava scendendo a meno di 400. E per le strade cominciavano ad apparire le nuove forze di sicurezza irachene, anche l'economia dava timidi segni di ripresa. I problemi per Bush crescevano invece in casa: gli americani dimostravano di non accettare più il tributo di sangue dei loro soldati. Oltre 3.000 morti dall'invasione, che oggi sfiorano quota 4.500, oltre a 30.000 feriti. Occorreva stabilire al più presto il calendario di una "exit strategy". L'anno scorso il presidente Barack Obama è stato ben felice di ratificare le intese firmate dal suo predecessore. Il suo obbiettivo ora è concentrarsi sull'Afghanistan, sperando che ancora Petraeus (il suo nuovo comandante sul campo dopo le controverse dimissioni del generale Stanley McChrystal) sia in grado anche qui di creare le condizioni per il ritiro. Eppure il nodo iracheno non è stato ancora sciolto. La crisi politica (dalle elezioni del 7 marzo non è ancora stato creato il nuovo governo), la recente ripresa degli attentati e le preoccupazioni tra i militari e la società civile locali, che paventano il ritorno massiccio della violenza a fronte del vuoto lasciato dagli americani, lanciano pesanti ipoteche sul futuro. Il primo di settembre termina formalmente la missione "Iraqi Freedom", iniziata con la guerra del marzo 2003, e comincia la "New Dawn", la nuova alba, che nelle speranze dei suoi fautori dovrebbe traghettare il Paese verso la normalizzazione. "Non ce ne andiamo. Almeno sino alla fine del 2011 resteranno 50.000 soldati Usa per addestrare gli iracheni", cercano di tranquillizzare da Washington e i portavoce americani a Bagdad. Ma per il momento sono in tanti qui a trattenere il respiro.

Lorenzo Cremonesi

19 agosto 2010

 

 

REPUBBLICA

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2010-08-30

USA VIA dall'AFGHANISTAN nel 2014

USA E' INIZIATO IL RITIRO dall'IRAK

L'addio dei marines senza vittoria

a Bagdad resta il fantasma del Libano

Invincibili ma non vittoriosi gli americani lasciano l'Iraq. Senza un saluto, senza un addio. In sette anni più di un milione di soldati Usa si sono avvicendati in questo Paese. La gente non sa se essere soddisfatta o preoccupata della partenza delle truppe straniere per la situazione in cui la lasciano

di BERNARDO VALLI

L'addio dei marines senza vittoria a Bagdad resta il fantasma del Libano Soldati americani in Iraq

BAGDAD - Il primo soldato americano che ho incontrato sette anni fa non aveva più di vent'anni. Era di New York e aveva un'espressione smarrita. Forse soltanto stupita. Era appena entrato nella capitale nemica, l'aveva espugnata, ma non sapeva contro chi puntare il fucile automatico. Nessuno lo minacciava. Sulla piazza, nel quartiere popolare allora chiamato Saddam City e poi ribattezzato Sadr City, c'erano soltanto centinaia di ragazzi preoccupati di mettere al sicuro il loro bottino: frigoriferi, armadi, ventilatori, seggiole, materassi, appena rubati nei ministeri, negli ospedali, nei commissariati di polizia, nelle caserme abbandonate. Quei ragazzi non guardavano neppure quel soldato americano mandato in avanguardia nel labirinto di Bagdad. A loro importava che non ci fossero più poliziotti e soldati iracheni nei paraggi. Erano tutti scomparsi.

Se l'erano svignata. E lui, il giovane marine di New York, era stupito di non imbattersi in qualche nido di resistenza. Invece della battaglia che si aspettava assisteva ad un saccheggio. Forse, pensò, gli iracheni festeggiano cosi la fine della dittatura.

Comunque ai suoi occhi la guerra appariva ormai conclusa. Di questo era sicuro. Ed era altrettanto certo di averla vinta. E invece tutto stava per cominciare.

Dopo quel marine, che fu tra i primi a entrare a Sadr City, nei sette anni successivi più di un milione di soldati americani si sono avvicendati in Iraq. Quasi tutti adesso sono partiti. E dopo avere raggiunto il vicino Kuwait sono ritornati in patria o sono stati smistati in Afghanistan. Ma se ne sono andati senza cantare vittoria, anche se con il piglio di soldati di un grande esercito potente e invincibile. Nell'epoca dei conflitti asimmetrici una forza armata tradizionale (confrontata a realtà sociali e culturali ostili, da cui emergono guerriglie che agiscono nella clandestinità, e col terrorismo), può infatti essere militarmente invincibile ma non vittoriosa. L'avventura in cui è stata impegnata dal potere politico si rivela in tal caso fallimentare.

È accaduto altrove negli ultimi decenni ed è accaduto in Iraq. Dove le bombe continuano ad esplodere, dove il nuovo esercito iracheno non è sicuro di garantire la sicurezza prima del 2020, e dove la gente non sa se essere soddisfatta per la partenza delle truppe straniere d'occupazione o essere preoccupata per la situazione in cui esse hanno abbandonato il Paese. Molti dicono: "Hanno cominciato consentendo un saccheggio e ci lasciano nelle peste". Non pochi sono coloro che rimpiango Saddam. Ma è un rimpianto dettato dalla collera o dalla paura. È il "si stava meglio quando si stava peggio" che non va interpretato alla lettera. Non ci sono stati comunque sventolii di fazzoletti da parte della popolazione e nessuno ha rivolto un saluto riconoscente ai soldati in partenza, che hanno portato un po' di democrazia. Il valore di quest'ultima, nei limiti in cui è stata realizzata, è giudicato dai più inferiore a quello della sicurezza.

Neanche un saluto! Eppure quel milione e più di soldati non erano fantasmi. I fantasmi non muoiono e qui di americani ne sono morti quattromila quattrocento. E nei sette anni di loro presenza almeno centomila iracheni sono morti, secondo calcoli al ribasso. Probabilmente il doppio. La stragrande maggioranza degli iracheni comuni non ha avuto contatti normali diretti con gli americani. Anche questo spiega la freddezza per la loro partenza. Li ha visti insaccati nelle loro tute, nascosti dietro lenti scure, con le armi puntate, che sfrecciavano a bordo di veicoli blindati (gli Humvees) nelle città e villaggi. Nessuno si è mai imbattuto in un militare americano isolato, e ancor meno disarmato, in una strada di Bagdad. E ancor meno in un caffè in compagnia di una donna o di un amico autoctono. Lo impedivano tante cose: i costumi locali, la diffidenza, e anzitutto il rischio di essere presi di mira da un terrorista. Quindi uccisi o rapiti.

Un esercito di centosettantamila uomini (quale era quello americano negli anni più intensi del conflitto) fa vivere un folto numero di persone addette ai servizi o di commercianti. Non è stato cosi in Iraq. Escluso un esiguo numero di iracheni, i civili impiegati nelle basi militari, o attorno ad esse, erano e sono stranieri: se non americani, provenienti da Paesi emergenti. Dalle Filippine all'India. Oppure dall'America Latina e dall'Europa. Da fuori, dall'estero, venivano anche i viveri. Acqua minerale compresa. Sul piano dei normali contatti umani (e in gran parte anche di quelli economici) è stato un esercito di fantasmi.

Tra quarantotto ore ne rimarranno soltanto cinquantamila, non più ufficialmente "combattenti", ma nella veste di consiglieri. E con loro resta una Bagdad che sembra un campo trincerato. Una capitale sfregiata da centinaia di chilometri di muri di cemento armato, dietro i quali sono trincerati ministeri, caserme, alberghi, case private, interi quartieri. E strade sfondate, spesso sommerse dalle immondizie, ed edifici diroccati, feriti dalle autobombe dei kamikaze. Al centro della metropoli la famosa Green Zone, città nella città dove sono rinchiusi vip politici e rappresentanze diplomatiche. Anzitutto quella degli Stati Uniti. Loro al sicuro, blindati, e noi fuori, esposti a tutte le insidie. È inevitabile, ma non suscita simpatia.

La situazione è paradossale, mi dicono i redattori di Al Sabah (Il Mattino), quotidiano governativo. Paradossale perché la parziale partenza degli americani è fonte al tempo stesso di soddisfazione e di paura. Il ritiro delle truppe di occupazione appaga l'orgoglio nazionale, ma accentua l'angoscia per la sicurezza. Ed anche la sfiducia nelle autorità nazionali, che non sono neppure in grado di assicurare acqua ed elettricità.

La raffica di attentati quasi simultanei di mercoledì scorso (cinquantasei morti e centinaia di feriti in tredici città, a nord e a sud del Paese) ha dimostrato che l'opposizione armata, ormai dedita soltanto al terrorismo, è in grado di promuovere operazioni a vasto raggio. E non è garantito che polizia ed esercito nazionali siano in grado di affrontarle o prevenirle.

Gli attentati del 25 agosto sono subito stati rivendicati da Al Qaeda (la versione irachena, che unisce varie organizzazioni clandestine), con un comunicato in cui si dice che "le ali della vittoria spazzeranno via anche il nuovo giorno".

Una frase che sembra una sfida alla "Nuova Alba", il nome dato dagli americani all'operazione che comincia il primo settembre. Il primo ministro Nuri al-Maliki ha subito reagito ordinando a esercito e polizia di intensificare la sorveglianza (ha dichiarato l'"allerta massima") e con un messaggio televisivo ha invitato gli iracheni a tenere gli occhi aperti, a denunciare senza esitare qualsiasi movimento sospetto.

Mercoledi sarà un giorno cruciale. Il generale Oderno, comandante delle truppe Usa, passerà le consegne a un generale iracheno, e poi lascerà Bagdad. E da quel momento gli americani che restano non saranno più, almeno ufficialmente, dei "combattenti". Reale o fittizia, la transizione ha un forte valore simbolico.

In un ristorante sulla riva del Tigri, a tarda sera, alla fine del quotidiano digiuno del Ramadan, incontro un notabile politico della città di Falluja, dove si trovano numerosi appartenenti a Sawa. Sawa è la milizia creata dagli americani con i sunniti recuperati dall'insurrezione armata. Molti erano militari dell'esercito di Saddam. In un primo tempo si sono alleati con Al Qaeda per opporsi al potere degli sciiti e agli americani, poi hanno finito per divorziare dagli integralisti religiosi che praticavano il terrorismo. E si sono affiancati agli americani. Adesso, mi dice l'uomo di Falluja, i capi di Sawa si preparano a formare gruppi di autodifesa autonomi. Si aspettano infatti un'influenza sempre più forte degli iraniani sulle autorità sciite che controllano esercito e polizia. E quindi non si fidano. Pensano che Teheran colmerà il vuoto lasciato dagli americani e spingerà i partiti sciiti ad inasprire l'ostilità nei confronti dei sunniti. Destinati ad essere ancor più emarginati. A Falluja sono convinti che gli iraniani agiscano sia a livello politico, sia nella clandestinità.

Chiedo al notabile di Falluja se l'Iran non sia diventata un'ossessione. E lui, per provare quel che afferma, mi dà elementi che non sono ovviamente in grado di verificare. All'Iran sono attribuiti, non sempre a torto, molti dei malanni che affliggono il Paese, mentre gli americani allentano la presa. Sarebbero loro, gli iraniani, grazie ai rapporti con i partiti sciiti iracheni, a rendere ancora impossibile, o difficile, la formazione di un governo sei mesi dopo le elezioni legislative di marzo. E sarebbero sempre loro ad alimentare il terrorismo, attraverso gruppi clandestini su cui esercitano una forte influenza.

Tra i tanti paradossali effetti dell'intervento americano in Iraq forse il più ricco di conseguenze è l'emergere di una maggioranza sciita. Essa è senz'altro legittima, perché uscita dalle urne, ma è anche sconvolgente, perché ha risvegliato dopo secoli lo slancio di una comunità a lungo frustrata, che ora vive un clima risorgimentale. Ed essa esige il potere a Bagdad, ma è divisa, rissosa al suo interno, e non riesce a realizzare il suo secolare progetto. Lo slancio sciita iracheno favorisce per molti aspetti l'Iran, potenza sciita e principale nemico degli Stati Uniti. Questo mette in allarme l'intero mondo sunnita. Arabia Saudita in testa. Insomma l'Iraq è diventato un campo di battaglia, in cui intervengono tante forze straniere, e sul quale gli americani, perlomeno in apparenza, limitano il loro intervento. Questo fa pensare al tragico Libano degli anni Ottanta. Ma assai più grande.

(30 agosto 2010)

 

 

 

2010-08-19

IL RITIRO

Truppe Usa via dall'Iraq

con dieci giorni di anticipo

Fine dei combattimenti, dopo sette anni e mezzo di guerra nel paese. L'ultima brigata americana è giunta in Kuwait. "Ma la missione cambia la sua natura solo dal 31 agosto". Quando il contingente Usa, con compiti di assistenza, sarà di 50mila uomini

Truppe Usa via dall'Iraq con dieci giorni di anticipo

NEW YORK - Dopo sette anni e mezzo la guerra in Iraq che ha portato al rovesciamento del regime di Saddam Hussein, è virtualmente finita. Con oltre dieci giorni di anticipo rispetto al calendario stilato dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama, riferisce la Nbc, l'ultima brigata da combattimento ha superato durante la notte la frontiera che separa l'Iraq dal Kuwait. Fonti dell'amministrazione Obama hanno però precisato che la missione di combattimento cambierà natura solo "dal 31 agosto, quando le brigate rimaste saranno riconvertite in forze di assistenza" alle truppe irachene. Ad oggi, secondo le stesse fonti, i militari Usa stanziati in Iraq sono 56.000 e solo a fine mese scenderanno come previsto a 50.000.

Una guerra, quella in Iraq, decisa dall'allora presidente Usa George W. Bush, convinto che Hussein possedesse armi di distruzione di massa (che non sono poi state mai trovate). Una guerra che ha portato a spaccature in Europa, visto che la Gran Bretagna ha combattuto al fianco degli Stati Uniti, mentre paesi come la Francia hanno guidato quello che si può definire un 'fronte del no'.

Bush aveva dichiarato la fine dei combattimenti in Iraq il primo maggio del 2003, in un famoso discorso, quello della 'Mission Accomplished' a bordo della portaerei Lincoln, al largo di San Diego in California. In realtà i combattimenti sono durati molto più a lungo, con oltre 4mila morti militari americani e decine di migliaia di vittime irachene, e tensioni fortissime nel biennio 2006-'07. Si è dovuto attendere il cosiddetto 'surge' del generale americano David Petraeus, nel 2007, per iniziare a vedere una progressiva stabilizzazione della situazione nel paese.

In base agli impegni presi da Obama, le truppe combattenti Usa in Iraq, che a un certo momento avevano raggiunto le 150mila unità circa, devono lasciare il paese entro la fine di agosto 2010. Il ritiro di tutti i militari è in calendario entro la fine del 2011.

Obama ha deciso il ritiro dall'Iraq anche per rafforzare l'impegno americano in Afghanistan, l'altra guerra degli Stati Uniti in questi anni, dove i militari Usa e Nato sono attualmente 150mila circa. Secondo un giornalista della Nbc 'embedded' (cioè che viaggia insieme a militari in Iraq) la brigata combattente che per ultima ha lasciato l'Iraq è la 4/a Stryker. Secondo la rete televisiva, "una volta che tutti questi militari sono usciti dal Paese, l'operazione Iraqi Freedom, quella da combattimento in Iraq, è terminata".

(19 agosto 2010)

 

L'UNITA'

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http://www.unita.it/

2010-09-01

Via dall’Iraq senza rimpianti Obama non canta vittoria

di Marina Mastrolucatutti gli articoli dell'autore

Non c’è stata a fargli da sfondo la portaerei Abraham Lincoln, che George W.Bush scelse come palcoscenico il primo maggio del 2003 per annunciare con tanto di striscione il suo "mission accomplished", missione compiuta. La guerra a Saddam era sembrata poco più che una passeggiata, e pazienza per le armi di distruzione di massa mai trovate. Per Obama che ieri sera alle 20, le due del mattino in Italia, ha siglato con un suo discorso in diretta tv la conclusione ufficiale delle operazioni militari in Iraq suona tutta un’altra musica. "Non ci saranno dichiarazioni di vittoria. C’è ancora molto lavoro da fare", ha detto ieri ai veterani di Fort Bliss. La missione continuerà con un’altra natura per affiancare gli sforzi degli iracheni, le energie liberate potranno segnare una svolta in Afghanistan. E anche sul fronte interno dell’economia. Parla dallo studio ovale Obama, è la seconda volta che accade, dopo il discorso sulla marea nera nel Golfo a sottolineare quanto sia importante l’evento. Tappezzeria nuova, via i broccati di Bush, un grande tappeto ecrù bordato con citazioni di cinque grandi presidenti, come quella di F.D. Roosevelt: "La sola cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa". Di paure, dubbi e preoccupazioni su questo ritiro tanto atteso quanto temuto ne circolano ancora parecchi. Comprese valutazioni di opportunità: con l’impennata di violenza delle ultime settimane come si fa a spiegare che la data di partenza non è solo uno slogan da spendere politicamente in vista delle rischiose elezioni di mezzo termine? Telefonata a Bush Obama deve spiegare tutto questo agli americani, non solo ringraziare il milione e mezzo di soldati a stelle e strisce che si sono avvicendati in Iraq, non solo ricordare i 4421 caduti americani - e chissà i 100.000 iracheni. Spiegare che cosa potrà accadere in Iraq, spingere sull’"urgenza" che a Baghdad si formi finalmente un nuovo governo e che questo sia fatto per "includere non per escludere", come anticipavano ieri alcuni consiglieri del presidente. Spiegare che in Iraq non tutto va bene, come ha fatto ieri il segretario alla Difesa Robert Gates, ma che la violenza non è mai stata così contenuta da quando è scoppiata la guerra nel 2003. Spiegare quanti soldi sono finiti nel pozzo senza fondo della guerra - 801,9 miliardi di dollari - e che cosa si potrà fare con i fondi risparmiati: non solo chiudere il capitolo afghano, ma anche strade, ponti, scuole per l’America. Lavoro per l’America. Una ventina di minuti in tutto, per voltare la pagina irachena. Qualche ora prima di parlare al Paese, Obama ha visitato i veterani di guerra e fatto una telefonata di pochi minuti con Bush. I repubblicani già l’accusano di volersi "prendere il merito" della conclusione delle operazioni, proprio lui che si era opposto con tutte le forze all’invio di altre truppe in Iraq richiesto da Bush. Come se essere riusciti ad andarsene dall’Iraq lasciando cumuli di macerie e uno stato traballante fosse di per sé una vittoria.

01 settembre 2010

 

 

 

2010-08-20

USA VIA dall'AFGHANISTAN nel 2014

USA E' INIZIATO IL RITIRO dall'IRAK

Obama convince israeliani e palestinesi: riprendono i colloqui diretti

I negoziati diretti fra israeliani e palestinesi riprenderanno il 2 settembre a Washington, alla presenza del presidente degli Stati Uniti Barack Obama: lo hanno reso noto fonti diplomatiche del Quartetto per il Medio Oriente (Stati Uniti, Russia, Ue ed Onu), precisando che le trattative dureranno in linea di principio 12 mesi e che un annuncio ufficiale si avrà in giornata. I negoziati indiretti fra Anp e Israele - condotti con la mediazione statunitense - erano ripresi il 9 maggio scorso: i colloqui dovevano durare quattro mesi e riguardare tutte le questioni relative allo status finale dello Stato palestinese, tra le quali la demarcazione delle frontiere, così come le garanzie di sicurezza per lo Stato ebraico.

Alcune settimane fa il premier israeliano Benjamin Netanyahu aveva reso noto che le trattative dirette sarebbero iniziate entro metà agosto: il presidente dell'Anp Abu Mazen aveva tuttavia recentemente definito "inutile" la ripresa dei negoziati diretti, dato che a suo parere ciò che sembra offrire Israele è la volontà di riprendere le trattative da zero: l'Anp vuole invece il rispetto degli accordi raggiunti con il precedente esecutivo di Ehud Olmert, oltre al congelamento delle attività edilizie negli insediamenti cisgiordani e a Gerusalemme Est, condizioni che lo Stato ebraico ha finora rifiutato.

Abu Mazen deve fare fronte però proprio alle insistenze della Casa Bianca per un cambio di passo nei negoziati: secondo un rapporto interno dell'Anp Mitchell avrebbe chiesto al Presidente palestinese di passare alle trattative dirette con lo Stato ebraico; il documento sottolinea tuttavia che rinunciare alle garanzie e alle condizioni poste dallo stesso Abu Mazen per aprire un negoziato faccia a faccia costituirebbe un "suicidio politico". La Lega araba da parte sua ha dato il via libera ai negoziati diretti, precisando tuttavia che spetta a quest'ultima stabilire i tempi per il passaggio alle trattative bilaterali. In una lettera indirizzata all'Amministrazione Obama i Ministri della Lega hanno poi sottolineato come debbano sussistere tre condizioni per un avvio dei negoziati diretti: innanzitutto, si dovrà trattare della "fase finale" del processo di pace, dovrà esistere una chiara tabella di marcia per i colloqui e dovranno venire creati degli adeguati meccanismi di controllo e verifica degli accordi.

20 agosto 2010

 

 

 

 

2010-08-19

Iraq, truppe Usa lasciano il Paese. Il ritiro con 10 giorni di anticipo

Con oltre dieci giorni di anticipo rispetto al calendario stilato dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama, la guerra in Iraq, durata circa sette anni e mezzo, è virtualmente finita. Circa cinquantamila militari Usa rimarranno ancora nel Paese, molti dei quali per oltre un anno, ma svolgeranno soprattutto mansioni di addestramento delle truppe irachene, come promesso dalla Casa Bianca.

Secondo la Nbc, l'ultima brigata da combattimento ha superato durante la notte la frontiera che separa l'Iraq dal Kuwait, oltre sette anni dopo l'inizio della guerra, il 20 marzo 2003, che ha portato al rovesciamento del regime di Saddam Hussein. Una guerra, decisa dall'allora presidente Usa George W. Bush, convinto che Hussein possedesse armi di distruzione di massa (che non sono poi state mai trovate). Una guerra che ha portato a spaccature in Europa, visto che la Gran Bretagna ha combattuto al fianco degli Stati Uniti, mentre paesi come la Francia hanno guidato quello che si può definire un 'fronte del nò.

Bush aveva dichiarato la fine dei combattimenti in Iraq il primo maggio del 2003, in un famoso discorso, quello della 'Mission Accomplished' a bordo della portaerei Lincoln, al largo di San Diego in California. In realtà i combattimenti sono durati molto più a lungo, con oltre 4mila morti militari americani e decine di migliaia di vittime irachene, e tensioni fortissime nel biennio 2006-'07. Si è dovuto attendere il cosiddetto 'surgè del generale americano David Petraeus, nel 2007, per iniziare a vedere una progressiva stabilizzazione della situazione nel paese. In base agli impegni presi da Obama, le truppe combattenti Usa in Iraq, che a un certo momento avevano raggiunto le 150mila unità circa, devono lasciare il paese entro la fine di agosto 2010. Il ritiro di tutti i militari è in calendario entro la fine del 2011. Obama ha deciso il ritiro dall'Iraq anche per rafforzare l'impegno americano in Afghanistan, l'altra guerra degli Stati Uniti in questi anni, dove i militari Usa e Nato sono attualmente 150mila circa. Secondo un giornalista della Nbc 'embedded' (cioè che viaggia insieme a militari in Iraq) la brigata combattente che per ultima ha lasciato l'Iraq è la 4/a Stryker. Secondo la rete televisiva, "una volta tutti questi militari usciti dal paese, l'operazione Iraqi Freedom, quella da combattimento in Iraq, è terminata".

19 agosto 2010

il SOLE 24 ORE

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2010-08-20

USA VIA dall'AFGHANISTAN nel 2014

USA E' INIZIATO IL RITIRO dall'IRAK

Riprendono i negoziati di pace. Netanyahu e Abu Mazen da Obama "senza precondizioni"

Cronologia articolo20 agosto 2010Commenti (2)

Questo articolo è stato pubblicato il 20 agosto 2010 alle ore 08:20.

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente dell'Anp Abu Mazen si troveranno faccia a faccia i primi di settembre a Washington davanti a Barack Obama per avviare colloqui diretti tra Israeliani e palestinesi.

L'annuncio della ripresa del processo di pace in Medio Oriente dopo 20 mesi di stallo è stato dato dal segretario di Stato americano, Hillary Clinton. La notizia è stata anticipata dal New York Times che, citando due alti funzionari della casa Bianca. Il presidente americano Barack Obama inviterà ufficialmente Netanyahu e Abu Mazen alla Casa Bianca per dare avvio ai negoziati. Obama ha invitato a Washington anche il presidente egiziano Hosni Mubarak e il re di Giordania Abdallah II, considerato l'importante ruolo svolto dai due leader.

Nel pomeriggio Clinton ha precisato che israeliani e palestinesi riprenderanno i negoziati a Washington, il 2 settembre, con l'obiettivo di concludere i colloqui entro un anno. Il capo della diplomazia americana ha spiegato che sono stati invitati il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, e il presidente dell'Anp, Abu Mazen, e all'incontro parteciperanno anche il re di Giordania Abdallah e il presidente egiziano, Hosni Mubarak. La Clinton ha spiegato che i negoziati dovrebbero svolgersi "senza precondizioni".

Nel messaggio a nome del Quartetto (Stati Uniti, Russia, Unione europea, Nazioni Unite), la Clinton ha invitato "entrambe le parti a mantenere la calma e la moderazione e ad astenersi da azioni provocatorie e da retoriche incendiarie". Un primo incontro per fare il punto sui negoziati tra i rappresentanti del Quartetto e quelli della Lega araba si terrà a fine settembre a New York, a margine dell'Assemblea generale dell'Onu.

In una conferenza stampa al Dipartimento di Stato americano, Clinton ha ribadito l'appoggio degli Stati Uniti alla soluzione dei due Stati, con "Israele e Palestina che vivono in pace e sicurezza l'uno accanto all'altro". Il segretario di Stato americano si è detta soddisfatta per le posizioni del premier israeliano Benyamin Netanyahu e del presidente dell'Anp Abu Mazen (Mahmud Abbas) che "condividono appieno l'impegno (di creare) due Stati".

Netanyahu, in effetti, ha accolto con favore l'invito degli Stati Uniti per rilanciare i negoziati di pace diretti con i palestinesi, il prossimo 2 settembre a Washington, ha riportato il sito web del quotidiano israeliano Haaretz. Giudizio positivo e parole di apprezzamento anche da Saeb Erekat, capo negoziatore per i Palestinesi, convinto che il contenuto dello statement del Quartetto diffuso da Hillary Clinton "contenga gli elementi necessari per giungere a un accordo sulla pace". Hamas boccia la ripresa dei negoziati. "Hamas respinge l'appello americano per la ripresa dei negoziati israelo-palestinesi", ha affermato il portavoce del movimento islamico, Sami Abu Zuhri precisando che "questo invito è un nuovo tentativo di ingannare il popolo palestinese dopo Annapolis, dove fu promesso uno Stato palestinese entro un anno ma da allora siamo ancora al punto di partenza".

Intanto il sostegno degli americani allo stato ebraico è in calo. Pur restando maggioritaria è in forte calo la percentuale degli americani che pensano che gli Stati Uniti debbano sostenere Israele, secondo un sondaggio d'opinione condotto da Israel Project, una Ong filo-israeliana con sede negli Usa. Nell'agosto del 2009 il 63% degli americani erano favorevoli al sostegno degli Stati Uniti allo stato ebraico. Lo scorso giugno erano il 58% e lo scorso luglio il 51%. Inoltre nel dicembre 2007, dopo la conferenza di Annapolis, il 66% degli americani erano convinti che il governo israeliano, allora guidato dal premier Ehud Olmert, era sinceramente impegnato a cercare un accordo di pace con i palestinesi. Lo scorso luglio erano il 45 per cento.

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Il ritiro degli Americani dall'Iraq lascia alle spalle un paese corrotto e diviso

di Alberto NegriCronologia articolo20 agosto 2010Commenti (1)

Questo articolo è stato pubblicato il 20 agosto 2010 alle ore 08:48.

"Sono preoccupato più dallo stallo politico che dal ritiro degli americani. Il problema principale non è il terrorismo di al-Qaeda ma la corruzione". Le parole di Saywan Barzani, 38 anni, ambasciatore in Italia e nipote del leader curdo Massud, riflettono la maggiore preoccupazione degli iracheni: un governo assente, politici indecenti, un'economia che galleggia sul petrolio ma non crea né posti di lavoro né servizi. Le truppe sfilano senza squilli di tromba oltre il confine con il Kuwait ma la battaglia non è finita. A Teheran, Damasco, Riad e Ankara, insidiosi vicini di Baghdad, tutti contrari all'invasione del 2003, sanno che il paese è vulnerabile al gioco delle influenze: per gli Stati Uniti la posta era fare dell'Iraq un alleato occidentale, per gli altri l'obiettivo è farlo restare nel marasma del Medio Oriente. Ecco perché la guerra dei sette anni continuerà.

La prima domanda da farsi è se l'Iraq sia un posto migliore di prima. Per i curdi e gli sciiti del sud massacrati da Saddam non c'è dubbio. Troppo facilmente si dimentica che le guerre del Raìs prima di tutto furono conflitti civili trasferiti all'esterno: l'attacco all'Iran nell'80 aveva come motivazione profonda soffocare l'opposizione sciita. I conflitti con i curdi erano mirati a eliminare con i gas un'etnia che reclamava l'indipendenza. Il Kurdistan è una regione autonoma che vorrebbe annettersi Kirkuk, la contesa città del petrolio. Gli sciiti occupano la maggioranza dei posti e dominano le provincie con le riserve di oro nero. Eppure sono inquieti e turbolenti, pronti a farsi manovrare da personaggi come il mullah Muqtada Sadr, uno dei bracci operativi dei pasdaran iraniani. I sunniti non riescono invece a inghiottire l'amaro calice di avere perso il potere dopo secoli di predominio. Il terrorismo continua soprattutto per questa ragione, resa ancora più incandescente dal fatto che il premier Al Maliki non vuole cedere il passo a Iyad Allawi che ha ottenuto una risicata maggioranza mettendo insieme rappresentanti sciiti e sunniti. "Al-Qaeda è ancora presente ma è pure un marchio di comodo sugli attentati perché la rete è in gran parte organizzata dal partito Baath" dice Barzani, confermando involontariamente che se non ci sarà una cooptazione degli spezzoni del vecchio regime difficilmente l'Iraq avrà pace. La seconda domanda è come sarà l'Iraq del dopoguerra. Sicuramente diverso da quello uscito dall'invasione del 2003. Se gli americani nel 2011 se ne andranno perderanno parte della loro presa. Già oggi i due maggiori partner economici sono l'Iran e la Turchia. Teheran ovviamente punta sullo sciismo, Ankara manovra sui due lati del Kurdistan: non è un caso che si siano messi d'accordo per controllare la frontiera. I vicini, Siria e Arabia Saudita comprese, sono i più interessati ad avere ai confini un paese debole e diviso. Per questo, nel malessere quotidiano iracheno, la tentazione dell'uomo forte è sempre viva. La figura del capo supremo sembra quasi irrinunciabile e oggi si chiede a uno stato inefficiente di sostituirla: "In Kurdistan - dice Barzani - siamo 6 milioni e 1,6 prendono uno stipendio pubblico, i contadini hanno smesso persino di andare nei campi". Sarà comunque un Iraq più povero, non sotto il profilo economico ma antropologico e culturale: minoranze come i cristiani sono state quasi annientate. "Io stesso - confessa Barzani - appartengo a una confraternita sufi che predica un Islam spirituale, estraneo agli affari terreni". E forse non c'è niente di più inattuale ma necessario di questo nell'Iraq settario del dopoguerra.

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2010-08-19

Back home. Per gli americani la guerra è finita ma l'Iraq è ancora una polveriera

di Gianandrea GaianiCronologia articolo19 agosto 2010Commenta

Questo articolo è stato pubblicato il 19 agosto 2010 alle ore 16:18.

Leimmagini del passaggio della frontiera kuwaitiana da parte della Quarta Stryker Brigade della Seconda divisione di fanteria dell'Us Army, le ultime truppe combattenti, segna nola fine della presenza in territorio iracheno di unità da combattimento statunitensi ma ha un significato soprattutto simbolico.

Dopo sette anni e mezzo di guerra e oltre 4.400 caduti i militari statunitensi cessano di essere coinvolti direttamente nei combattimenti ma resteranno con ben 50 mila soldati nel Paese arabo. Truppe assegnate all'Operazione "Nuova Alba" che verranno convertite, fino alla fine del 2011, per assolvere compiti di supporto e addestramento delle forze armate irachene, di certo inadeguate a gestire da sole la sicurezza nazionale. L'esercito iracheno avrebbe preferito un prolungamento della presenza militare americana per altri 10 anni. Mentre nel paese si combatte ancora una guerra segreta. E continuano gli attentati suicidi che coinvolgono spesso anche la popolazione civile. Da 5 mesi i due principali partiti politici litigano enon riescono a creare un governo. Il paese è una polveriera.

Il ritiro statunitense dell'ultima brigata "combat" aiuta Barack Obama a offrire all'opinione pubblica interna il segnale tangibile di aver mantenuto la promessa elettorale di chiudere l'operazione "Iraqi Freedom" varata da George W. Bush nel 2003 . In Iraq però le reazioni non sono positive. Dopo che il capo di stato maggiore delle forze armate di Baghdad, il generale Babaker Zebari, aveva chiesto agli statunitensi di restare "fino a quando saremo pronti a fare da soli, nel 2020", ieri il ministro degli esteri (e quasi omonimo del generale) Hoshyar Zebari ha denunciato il "pericoloso vuoto di potere" che si sta creando in Iraq e che rischia di far perdere agli Usa "tutto il Medio Oriente" rimproverando a Obama (che ha lasciato la gestione della questione irachena al vicepresidente Joe Biden) di non essersi impegnato abbastanza nella mediazione per superare l'attuale stallo politico dopo le elezioni irachene. "Oggi probabilmente avremmo già un nuovo governo a Baghdad e saremmo molto meno deboli".

Più che le capacità di contrasto della rinnovata offensiva terroristica di al-Qaeda, preoccupano i limiti addestrativi e di equipaggiamenti delle truppe di Baghdad, assolutamente inadeguate a far fronte a minacce esterne che, considerati i vicini dell'Iraq, non si possono certo escludere. Il nuovo esercito iracheno, costituito nel 2004 con 3.500 volontari, è oggi cresciuto a oltre 200 mila effettivi e 18 divisioni ma si tratta di numeri che non hanno corrispondenza con reali capacità operative. L'addestramento è sommario e limitato alle nozioni basilari della contro-insurrezione vale a dire pattugliamenti, istituzione di check point, perquisizioni e rastrellamenti. Operazioni condotte a livello di compagnia o al massimo di battaglione, cioè impiegando poche decine o poche centinaia di soldati. Nonostante il reinserimento nei ranghi di molti ufficiali dell'esercito di Saddam Hussein gli iracheni non sono oggi in grado di effettuare manovre ad ampio respiro con brigate e divisioni, non sono addestrati a impiegare in modo coordinato jet da combattimento, elicotteri d'attacco, mezzi corazzati e artiglieria. Mezzi necessari per combattere una guerra convenzionale ma non ancora disponibili negli arsenali iracheni che cominciano ora a ricevere moderni carri armati (T-72 aggiornati e Abrams), elicotteri da combattimento, blindati Stryker e mezzi antimina Couguar. Non basterà certo un anno di residua presenza delle truppe statunitensi a trasformare un esercito leggero con compiti simili a quelli della polizia in una forza da combattimento. Il ritiro definitivo delle truppe statunitensi nel 2011 potrebbe però subire rallentamento e modifiche in base alle richieste delle forze di Baghdad. Un'ipotesi autorevolmente sollevata al New York Times da Ryan Crocker, ambasciatore americano in Iraq fra il 2007 e i primi del 2009.

"Abbiamo un partner iracheno e non saremo certo noi a prendere decisioni unilaterali. Ma se verranno da noi quest'anno chiedendo di rivedere insieme il periodo post-2011 sarà nel nostro interesse strategico ascoltarli". Di certo gli statunitensi manterranno l'accesso a molte basi e aeroporto iracheni e la possibilità di trasferire rapidamente truppe nel Paese in caso di necessità. Come anticipato da Il Sole 24 Ore il 13 agosto, la Casa Bianca intende rimpiazzare molti militari con contractors civili per continuare ad affiancare e sostenere le forze di Baghdad e vigilare sui delicati equilibri del Paese mediorientale. Citando fonti dell'Amministrazione il New York Times ha riferito di una forza operativa composta a partire dal 2012 da 6/7 mila contractors dotati di 60 veicoli antimina, velivoli teleguidati, due dozzine di elicotteri impiegati anche per per proteggere l'ambasciata di Bagdad e altre quattro sedi diplomatiche fortificate a Bassora, Kirkuk. Mosul e Irbil. Un investimento di un miliardo di dollari solo per le infrastrutture più altri 800 milioni per assegnare alle società di sicurezza privata l'addestramento della polizia irachena.

La missine di supporto e sicurezza verrà affidata al Dipartimento di Stato in modo da rendere meno"militare" la percezione dell'impegno statunitense in Iraq anche se il Dipartimento guidato da Hillary Clinton non ha mai gestito missioni di questo genere. Inoltre l'impiego dei contractors avrà un impatto sull'opinione pubblica statunitense inferiore alla presenza dei militari, specie in caso di scontri e di caduti.

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